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CALCUTTA RELAX TOUR: IL KARAOKE PIÙ BELLO DELLA STORIA

Fuori è freddo, ma è normale a dicembre. Così mi sono detta, parafrasando il buon Edoardo, non appena ho cacciato un piede fuori dalla mia stanza d’albergo per raggiungere il Forum.

18 dicembre 2023. Cinque anni dopo Latina e l’Arena di Verona: da Tutti in Piedi a Relax, sembra passata un’eternità.

In effetti, a pensarci bene, il mondo non è più quello del 2018: tra pandemie, lockdown e una guerra che continua a destabilizzare l’occidente, noi non siamo più gli stessi di tanti anni fa. E la musica riflette tutto ciò. È inevitabile.

Ho iniziato ad ascoltare Calcutta quando frequentavo ancora l’università: il suo “io ti giuro che torno  casa non so di chi” mi ricorda i chiostri della Statale, le birre dell’Eurospin e gli after con gli amici. E devo ammettere che sono ancora rimasta un po’ in quel mondo: da buona millennial, credo di essere vittima di quell’adolescentizzazone dell’età adulta che spaventa i nostri genitori, ma che è tanto amata dagli artisti indie.

In questo clima interiore da eterna ragazzina ho preso coraggio e, in barba agli amici ormai cresciuti e con figli da mettere a letto, me ne sono andata da sola ad assistere a quella che a tutti gli effetti è stata una vera e propria messa dell’indie.

Non per nulla lo spettacolo si è aperto con Coro brano che, più che un coro alpino, ricorda quasi un canto liturgico, il quale con quel “se non esistessero i soldi, noi due dove saremmo? Non si farebbe Sanremo” sembra quasi ricordare con cinismo quanto lo spirito ribelle della prima musica indie sia stato immolato nel nome del mainstream.

E poi si parte: dalla radiofonica 2 minuti alla più malinconica e introspettiva Limonata, saltando tra i brani del nuovo album, Relax, e i classici della discografia calcuttiana, ormai diventati dei veri evergreen.

Pensandoci bene, ogni canzone di Calcutta parla un po’ di noi: io la chiamo poesia dell’ordinario, musica delle piccole cose. Ogni brano del concerto evoca nei suoi ascoltatori vivide immagini di una normalità che ti colpisce in faccia senza alcuno scampo.

Occhiali. Maglietta che sembra uscita da un negozio Humana. Calcutta mi ricorda sempre l’amico che ha deciso di andare a studiare al DAMS di Bologna. E questa è forse una delle più belle qualità di Edoardo come artista: non è un dio, non è inarrivabile, è un ragazzo qualunque capace di cantare i drammi di noi giovani qualunque, soffocati da un pendolo che oscilla tra la precarietà e i nostri first world problems.

La voce di Edoardo, leggermente impastata dai vapori dell’aerosol usato per curare la sua influenza, va a mescolarsi con quella dei suoi fan, in un coro stonato e denso di emozioni.

I maligni diranno che, più che un concerto, la performance di Calcutta è in realtà un bel karaoke colorato da led, neon e laser.

Non me la sento di dissentire, anche se in realtà io leggo tutto ciò in chiave positiva. Un vero concerto è un rito collettivo: è migliaia di persone che si riuniscono in nome di canzoni che le fanno emozionare. È diventare parte di un qualcosa di più grande. È sentire, almeno per un momento, che ad altre persone piace la stessa musica che piace a te.

Per questo motivo un concerto indie può solo essere un enorme karaoke in cui artista e pubblico si fondono in un’unica entità: da cantore del disagismo, Calcutta diventa specchio della vita di quasi di quasi quindicimila persone, che finalmente trovano qualcuno capace di dare voce alla loro interiorità.

Di concerti ne ho visti tanti, ma ben pochi sono riusciti a trasmettermi l’aura di emozione che si è creata in quel momento: Calcutta ci insegna che non serve essere dei saltellanti Mick Jagger per coinvolgere il pubblico e che, forse forse, tutte quelle storie sull’importanza della presenza scenica sono delle cazzate.

A distanza di un mese io non ho ancora capito cosa è successo quella sera. So solo che a un certo punto mi sono ritrovata abbracciata a una perfetta sconosciuta mentre gracchiavo il ritornello di Hübner, con il volto illuminato da migliaia di torce degli smartphone. Magari tra qualche anno  ci saremo dimenticati di tutta questa storia dell’indie e ci guarderemo indietro con lo stesso sorrisetto bonario che taglia il volto di mio padre ogni volta che pensa alle sue serate in discoteca passate a ballare Gioca Jouer. Questo non lo so. E non lo voglio neanche sapere.

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